Giovani veneti in fuga: il segnale ignorato di un sistema malato
Negli ultimi anni, sempre più giovani veneti stanno facendo le valigie per cercare altrove ciò che qui non trovano più: un futuro.

L’articolo apparso sul Giornale di Vicenza fotografa una realtà che molti fingono di non vedere: il Veneto, una volta terra di opportunità, oggi è diventato una regione di passaggio. Non per i turisti, ma per i suoi stessi figli, che dopo l’università o le prime esperienze lavorative scelgono di partire, consapevoli che restare significherebbe accontentarsi di poco, o di nulla.
Eppure, questa non è una novità storica. È un déjà-vu.
Dopo l’unificazione imposta dai Savoia, anche allora migliaia di veneti furono costretti a lasciare la propria terra. Le promesse di libertà e prosperità si tradussero in tasse, miseria e colonizzazione economica da parte del neonato Stato italiano. Oggi la storia si ripete, con modalità diverse ma con le stesse cause profonde:
l’Italia (Stato) continua ad essere il cancro che consuma il corpo vitale del Veneto.
Vent’anni di immobilismo dorato
Da vent’anni assistiamo a un racconto edulcorato della realtà, dove l’amministrazione regionale è dipinta come un modello di efficienza e buona gestione. Ma la verità è un’altra:
dietro la facciata di consenso e propaganda si nasconde un progressivo impoverimento sociale, economico e culturale.
Chi oggi acclama la “buona gestione” del Veneto probabilmente lo fa perché si affida a una stampa addomesticata — spesso finanziata direttamente con fondi pubblici statali o regionali — che preferisce celebrare piuttosto che indagare.
Un sistema mediatico che non informa, ma intrattiene; non critica, ma giustifica.
Intanto la sanità regionale, un tempo fiore all’occhiello, è allo sbando: carenze di personale, liste d’attesa interminabili, ospedali depotenziati.
Le famiglie vedono erodersi il proprio potere d’acquisto, i lavoratori vengono spremuti da un fisco asfissiante, le imprese resistono non grazie alla politica, ma
nonostante la politica. E i giovani? Fuggono.
Non perché non amino la propria terra, ma perché qui non trovano più le condizioni per costruirsi una vita dignitosa.
Il doppio inganno: Roma e Venezia
Il male non nasce solo a Roma.
Certo, lo Stato centralista continua a drenare risorse, impedendo al Veneto di gestire autonomamente ciò che produce. Ma altrettanto colpevole è la
subalternità del potere regionale, ormai piegato alle logiche partitiche nazionali.
La Regione non decide più per i veneti, ma per le segreterie dei partiti.
Un sistema dove il consenso viene mantenuto a colpi di annunci e inaugurazioni, mentre i nodi reali — autonomia, sanità, lavoro, ambiente — vengono rimandati sine die.
Il risultato è un livellamento verso il basso: il Veneto resta “una delle migliori regioni d’Italia”, sì, ma solo perché il resto del Paese è in caduta libera. La differenza si assottiglia ogni anno di più, e il mito dell’eccellenza veneta rischia di diventare solo un ricordo.
L’esodo come termometro sociale
Quando i giovani partono, non è solo un problema statistico. È un termometro che misura la febbre di una società malata.
Se il Veneto perde la sua linfa più vitale — i suoi ragazzi, le sue menti, la sua energia — significa che qualcosa si è spezzato nel patto sociale, e che la politica, regionale e nazionale, ha fallito nel suo compito primario:
proteggere il futuro.
È ora di smettere di raccontare che va tutto bene.
Il Veneto non ha bisogno di pacche sulle spalle, ma di coraggio politico, di visione, di un ritorno all’autogoverno vero.
Solo liberandosi dall’abbraccio tossico di Roma e dal torpore autoreferenziale di Venezia, potrà tornare ad essere ciò che era: una terra che non manda via i suoi figli, ma li fa tornare.
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